Macaluso-De Mita e la Fiat: le intemerate dei due ex dc e pci

Macaluso e De Mita


In tutta onestà non si può dire che ci andassero leggeri nemmeno allora, quando la prima Repubblica ancora non era crollata. Basta rileggere una vecchia intervista che l’ex delfino di Bettino Craxi, l’ex Guardasigilli socialista Claudio Martelli rilasciò a Panorama a dicembre del 1987. «Oggi la Fiat in Italia è una monarchia nella Repubblica. Nessun gruppo industriale in nessuna grande democrazia ha lo stesso potere che la Fiat ha da noi. Il problema è strutturale. Un gruppo economico che acquisisce un tale livello di potenza e di influenza diventa un caso politico».

E si parla della Fiat degli Agnelli, non di quella del «canadese» Sergio Marchionne che guarda l’Italia sempre più da lontano. La Fiat che ancora si muoveva in quel solco tracciato da Vittorio Valletta: «Ciò che è bene per la Fiat è bene per l’Italia». La Fiat che con la politica non solo ci dialogava, ma che ne era parte integrante, come stanno a dimostrare anche le «navicelle» del Parlamento, dove compaiono i tre fratelli Susanna, Umberto e Giovanni Agnelli: la prima parlamentare repubblicana e ministro degli Esteri, il secondo deputato democristiano, il terzo senatore a vita. La Fiat, che un altro socialista, il ministro del Lavoro Rino Formica, definì un giorno (e certamente non per una svista) «controparte padronale», ma sotto sotto era coccolata e corteggiata da tutta la politica. Era o non era la più grande industria italiana? E se Cesare Romiti ha rivendicato con Giampaolo Pansa, che lo intervistava per il libro «Questi anni alla Fiat», di aver imposto durante la sua gestione una «linea di rottura con i poteri pubblici», la casa torinese continuava a essere la principale destinataria di ricchi contributi statali. Come gli oltre 3 mila miliardi di lire per lo stabilimento di Melfi.

Il peggio che potesse capitare in quegli anni erano le scaramucce. Come quello scambio di battute fra Romiti e il ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, che gli aveva vibrato una stilettata: «È un po’ nervoso, perché la Fiat va male». E lui, ai giornalisti, ridacchiando: «Vi sembro nervoso» ? O come quell’altro commento di Martelli, in piena bufera di Tangentopoli: «La Fiat non può dire di essere stata vessata dai partiti, è una tesi difficilmente sostenibile». Ma nessuno della cosiddetta prima Repubblica, nemmeno nei momenti più tesi, si sarebbe sognato di minacciare, come ha fatto sabato l’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita parlando con Antonella Baccaro del Corriere, l’occupazione di una fabbrica. Causa della clamorosa intemerata dell’ottantatreenne ex segretario dc, la decisione della Fiat di chiudere lo stabilimento avellinese della Irisbus, messo in ginocchio dalla mancanza di commesse pubbliche per il trasporto pubblico locale. «I soldi per le quote latte il governo li ha trovati, eccome...», ha ringhiato l’irriducibile Signore di Nusco. Per non parlare del trattamento al vetriolo che ha riservato a Marchionne un altro monumento della politica nostrana.

Ha scritto l’ex parlamentare del Pci Emanuele Macaluso sul Riformista, a proposito della tragica vicenda dell’operaio suicida Agostino Bova, licenziato da Termini Imerese per un «furto» di 55 euro: «In altri momenti Bova sarebbe stato punito con un richiamo, una breve sospensione, non certo con il licenziamento. Ma i sindacati sono deboli, la politica è debole, la cosiddetta società civile è distratta e c’è l’uomo forte Marchionne, che licenzia il povero Bova ma, come abbiamo visto, può ricattare l’Italia». E il governatore siciliano Raffaele Lombardo, che durante la prima Repubblica si è fatto le ossa nella Dc di Calogero Mannino, non ha avuto paura di spingersi rabbiosamente addirittura oltre. Sentite che cosa ha detto, secondo quanto ha riportato l’Ansa: «Quando ci si comporta da farabutti, i lavoratori vengono portati all’esasperazione e si arriva alla disperazione com’è accaduto per l’ex operaio della Fiat che ha ammazzato la moglie e poi si è suicidato». Poi ha proposto di scendere in piazza, occupare i consigli comunali e provinciali e «mettere le tende a Roma». Se la Fiat era una «monarchia nella Repubblica», allora qui siamo alla presa della Bastiglia.

Sergio Rizzo
01 agosto 2011
corriere.it

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